La natura è (anche) violenta,
di una violenza improvvisa, incoercibile. Per pararne i colpi (non tutti, ma
molti sì) si deve conoscerla per quella che è: una madre fertile e provvida, ma
a volte infanticida. L’impressione – anche dai commenti sull’alluvione – è che
non la conosciamo più. Alterniamo la rimozione totale, da urbanizzati che
credono di avere addomesticato per sempre il mondo, di averlo imprigionato in
un palmare o in un cruscotto d’auto; a una visione idealizzata, arcaica,
sdolcinata: come in quei documentari in cui la voce narrante bamboleggia
parlando delle bestie (e dunque, non ne parla davvero). Cavalchiamo una tigre
(vulcani, terremoti, maremoti, alluvioni) come se fosse un gattino. Costruiamo
case sul ciglio di fiumare infide e piangiamo quando l’acqua se le ingoia.
Lasciamo morire gli alberi senza rimboschire, e rimaniamo sbalorditi quando l’acqua
ci piomba addosso precipitando lungo pendici glabre. Siamo come i turisti della
domenica che salgono i monti in mocassini, scivolano e muoiono: ma lo siamo
tutto l’anno, ogni giorno. La rimozione della morte e la rimozione della natura
sono le due facce della stessa medaglia. Non conosciamo più la natura perché il
nostro sforzo supremo è dimenticare che nella vita esiste anche la morte.
Michele Serra